Michelino - Trollio: Operai carne da macello
15. Una prima vittoria: rinviati a giudizio due dirigenti della Breda Fucine
Dopo anni di battaglie su più fronti, nell’anno 2000 si apre uno spiraglio: il 18 dicembre il Giudice per le Indagini Preliminari del tribunale di Milano dott. Walter Saresella respinge la richiesta di archiviazione dei Pubblici Ministeri, dott.ssa. Vigna e dott. Aprile, e ordina al P.M. titolare dell’inchiesta – Stefano Aprile - di rinviare a giudizio entro 10 giorni, per omicidio e lesioni colpose e violazione delle norme sulla sicurezza, due degli ex dirigenti della Breda Fucine, Vitantonio Schirone e Umberto Marino, ritenendo che ci siano elementi sufficienti per istruire il processo.
I due dirigenti sono accusati della morte di sei operai (Italo Cenci, Danilo Lazzari, Giovanni Crippa, Biagio Megna, Attilio Barichello, Aldo Pettenon) e della malattia di un settimo, Giuseppe Mastrandrea, tutti occupati un tempo nella fabbrica al confine tra Milano e Sesto San Giovanni, e deceduti o ammalatisi per patologie legate all’amianto inalato durante la lavorazione al reparto “Aste leggere”.
Uno degli elementi su cui il G.I.P. basa la sua ordinanza di rinvio sono i rapporti dell’Ussl che anni prima aveva segnalato la presenza di amianto nel reparto “Aste”, durante i controlli effettuati, la presenza dell’amianto. Scrive il dott. Saresella che i tumori “appaiono ricollegati variamente all’esposizione all’amianto”. Un altro elemento è la “fattibilità tecnologica”, ovvero l’esistenza all’epoca sia di tecnologie che di materiali per modificare il ciclo produttivo, eliminando l’amianto, e prendere misure preventive più efficaci a salvaguardia della salute dei lavoratori.
Dopo anni di difficoltà e amarezze, per il Comitato e per i familiari dei morti arriva il momento di assaporare un po’ di gioia.
In un’intervista al quotidiano IL GIORNO” realizzata da Patrizia Longo, Elisa Nodari, vedova di Danilo Lazzari, dichiara: ”Quando ho saputo della decisione del giudice ho pensato che se fosse stato qui, mio marito sarebbe stato contento. Mi è sembrato di fare qualcosa di importante per lui, di ricordare a tutti ciò che ha passato: ha lavorato per quarant’anni praticamente senza un giorno di malattia e ha scoperto che stava male quando non era trascorso nemmeno un mese dal pensionamento”. Anche la vedova di Giambattista Tagarelli, Antonia Tansella - la cui denuncia era stata archiviata pochi mesi prima – dice a Patrizia Longo (ormai si conoscono bene, loro due, perché Patrizia ha seguito passo passo, con passione, tutta la nostra storia) dice: “Il giorno dell’archiviazione sono andata su tutte le furie. Per questo appena ho saputo della decisione del G.I.P., anche se non riguarda più direttamente mio marito, io e i miei figli siamo come rinati. Gianni non voleva ottenere un risarcimento, ma solo giustizia: trovare i colpevoli. I dirigenti della Breda non hanno dato nulla agli operai, solo mezzo litro di latte al giorno per l’aria irrespirabile del reparto.
Mio marito non ha mai fatto malattia, ma lo hanno messo in cassa integrazione e, quando è stato a casa per le cure di chemioterapia, gli hanno mandato la visita fiscale di controllo. Quella di lunedì è stata una vittoria soprattutto per lui, che ha dovuto subire tante umiliazioni”.
Bisognerà tuttavia aspettare ancora 7 lunghi mesi - e la decisione di un altro giudice - prima di sapere se il processo si farà o no!
Il 5 giugno 2001 si tiene la camera di consiglio con il G.U.P. (Giudice per le Udienze Preliminari), dott.ssa Silvana Petromer.
C’è subito uno scontro: gli avvocati della Breda non vogliono accettare la costituzione di parte civile del Comitato. Comitato che è presente, con centinaia di persone, assiepate nei corridoi del Palazzo di Giustizia dietro lo striscione: ”Chiediamo e pretendiamo giustizia per i nostri morti”. Siamo venuti in tanti a far sentire la nostra determinazione ad ottenere giustizia, la stanza, è troppo piccola per contenerci tutti – avvocati, parti lese, pubblico e… carabinieri e poliziotti della Digos. Sì, anche carabinieri e poliziotti che, neanche fossimo pericolosi criminali, assisteranno – più o meno numerosi – a tutte le udienze del processo.
Davanti a tanta gente, il giudice prima cerca di rinviare l’udienza poi, su insistenza dei nostri legali, decide di continuare solo alla presenza degli avvocati e degli undici familiari presentatisi parte civile nel processo, e rinvia la sua decisione al 20 giugno.
Com’è andata quel giorno lo riportano stavolta tutti giornali.
Ecco il commento de IL GIORNO del 21 giugno 2001, sempre a firma di Patrizia Longo.
Sì, Breda a giudizio - si apre il 14 novembre
“La notizia arriva dopo quasi tre ore di attesa snervante: il processo ai due ex dirigenti Breda per la morte di sei operai e la grave malattia di un settimo, tutti colpiti da tumori causati dall’esposizione all’amianto, si farà. Il giudice per l’udienza preliminare ha disposto il rinvio a giudizio dei due indagati per omicidio colposo e lesioni gravi. La prima udienza è fissata per il 14 novembre, alla nona sezione del Tribunale di Milano.
L’annuncio è stato accolto da un lungo applauso liberatorio di un centinaio di soci del Comitato dei familiari delle vittime, operai ammalati e compagni di lavoro, che da anni si battono per ottenere giustizia… La loro gioia trapela dagli occhi. Quasi increduli, non hanno il coraggio di esprimere ad alta voce i loro sentimenti come se non volessero rompere l’incantesimo. «Chiediamo e pretendiamo giustizia per i nostri morti» hanno scritto su uno striscione… «Finalmente è arrivato il rinvio a giudizio dice Giuseppe Gobbo, operaio ammalato di tumore e operato tre volte. La mia causa è stata archiviata, insieme a quella di tre operai deceduti, tra cui Tagarelli, forse perché era una delle prime. Speriamo che questa faccia giustizia: è l’unica cosa che chiedo, non i soldi. A metà degli anni ’80 l’impianto di una ditta statunitense che utilizzavamo nel reparto Aste si era guastato ed è arrivato un tecnico dagli Stati Uniti. Mi ha chiesto se da noi erano morti degli operai. Ho capito cosa intendesse solo due anni dopo”. I racconti sul passato si mischiano ai commenti di gioia.
«È una soddisfazione, dopo tutte le lotte che abbiamo portato avanti, sia in fabbrica che ora, grazie soprattutto a Michele Michelino – ha aggiunto Giuseppe Mastrandrea, parte in causa per lesioni gravi. Da quando mi sono ammalato non sono più un uomo normale, è ora di avere giustizia».
La gioia, però, resta velata di tristezza: «Siamo riusciti a toccare solo la punta di un iceberg – ha detto l’avvocato Clementi – e il fatto che tanti operai continuino a morire non può darci soddisfazione»”.
Il giorno dopo il Comitato è nuovamente in tribunale. Stessa aula, stesso giudice che deve decidere sulla richiesta di archiviazione del caso di Silvestro Capelli, operaio colpito da un tumore alla gola.
L’avvocato di parte civile, Laura Elia, dice: «Il suo caso è stato stralciato dagli altri per una motivazione che contestiamo: avrebbe lavorato in un reparto diverso rispetto ai sei operai morti e al settimo gravemente ammalato. In realtà era lo stesso capannone». Anche Capelli ricorda: «La divisione tra un reparto e l’altro ere una linea gialla disegnata per terra, ma l’aria non rispettava quel confine. Le polveri di amianto volavano ovunque, la mattina ne trovavamo uno strato sui macchinari. Il rinvio a giudizio dei due ex dirigenti Breda, è stato importante, non solo per la mia causa, ma per il valore in sé. È il nostro primo grande successo da sei anni. Vorrei che fosse fatta giustizia per tutti i lavoratori e le loro famiglie, è questo che mi tiene vivo». E in un’intervista fatta lo stesso giorno, il 21 giugno 2001, al quotidiano La Repubblica, a firma di Pier Francesco Fedrizzi, con il titolo “Morivamo e nessuno diceva nulla”, la Breda, Sesto e l’amianto: una strage coperta dal silenzio” Capelli risponde così alle domande del giornalista: “Quando inizio a lavorare alla Breda Fucine di Sesto San Giovanni?L’1 ottobre 1975, avevo 32 anni e venivo da Cremona». Da allora ha sempre lavorato alla Breda Fucine? «Sì, sono uscito nel ’92 a 48 anni per andare in pensione con 35 anni di contributi». Quando si è accordo dei primi sintomi della malattia? «Nel ’95 e gli esami hanno confermato i timori». Sapeva di essere a rischio cancro? «Negli anni che lavoravo alla Breda nessuno mi informò, l’ho saputo solo quando ho lasciato la fabbrica». Ma dentro la Breda nessuno informava sulla pericolosità dell’amianto? «No, noi usavamo delle coperte con fibre di amianto per intervenire nella fase di saldatura delle aste. Il calore sfaldava il tessuto e in reparto c’era una polvere che rendeva l’aria irrespirabile. Finito il turno sputavo bianco per ore…». Nessuno di voi protestò per le condizioni di lavoro? «Ricordo un mercoledì mattina del ’78. Eravamo riuniti in assemblea e uno di noi, Giambattista Tagarelli, si alzò e chiese che l’azienda installasse degli aspiratori. Fu tacciato dal consiglio di fabbrica di essere un operaio reazionario che voleva la chiusura della fabbrica. Nessuno fiatò». Che fine ha fatto Tagarelli? «Giambattista è morto due anni fa. Se l’è portato via il cancro». Secondo lei, di chi è la responsabilità di tante morti? «È collettiva: i tre sindacati, l’azienda e l’amministrazione comunale. Loro erano a conoscenza della situazione e dei rischi, ma non sono intervenuti per eliminare i rischi». Perché nessuno intervenne? “La Breda era una delle poche aziende a partecipazione statale che guadagnava. Era un modello, non si poteva mettere in discussione. Ci dissero che le nostre richieste avrebbero aumentato i costi e rallentato la produzione: tutte balle. I soldi andarono ad altri». Quante persone sono morte a causa dell’amianto? «Una stima è impossibile. Oltre agli operai, più di una sessantina, c’è la gente di Sesto che, vivendo vicina alla fabbrica, continua a respirare quest’aria malsana». Secondo lei qualcosa è cambiato? «La nostra vicenda è servita, ma occorre fare di più. Nessuno dice che ancor oggi ci sono tonnellate di amianto stoccate dentro la Breda e che il pericolo per la salute pubblica è altissimo. A Sesto si continua a respirare l’amianto. Io morirò di cancro e nessuno se ne accorgerà, ma uno stato civilenon può permettere che esistenze come la mia e quelle dei miei compagni si spengano in silenzio e senza giustizia».
In quei giorni convulsi - tra gioia, timore e rabbia - facemmo tutti insieme un bilancio.
Per anni la nostra lotta era stata ostacolata da molti: andavamo contro giganteschi interessi economici e politici.
Ma era davvero “normale” che il profitto e i bilanci aziendali venissero prima della salute e della vita umana? No, noi non lo ritenevamo né “normale” né giusto: per questo la resistenza contro i tentativi di insabbiare i processi non è stata “solo” un episodio di lotta operaia contro lo sfruttamento, ma una battaglia di civiltà per tutti.
Questo era il sentimento – e il ragionamento – che ci aveva sostenuto per dieci lunghi anni.