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> INTRODUZIONE - [M.
Michelino:1970-1983 - La lotta di classe nelle grandi fabbriche di Sesto San
Giovanni]
Il contesto in cui si sviluppano le lotte
operaie
Nel 1970-76 nelle fabbriche di Sesto San Giovanni - le più
sindacalizzate d’Italia, con punte del 95% di iscritti - avviene un notevole
ricambio dovuto al turnover (il rimpiazzo dei vecchi operai che andavano in
pensione).
Molti giovani operai entrano nelle fabbriche per sostituire
quelli dell’epoca della “ricostruzione” che lasciano la fabbrica per raggiunti
limiti di età. Sono questi anni di grandi sconvolgimenti. Le lotte operaie e
studentesche del 1968-1969, l’autunno caldo, la strategia della tensione
culminata con la strage fascista di Piazza Fontana a Milano, la bomba fascista
gettata nel febbraio 1971 contro un corteo antifascista a Catanzaro, che provocò
un morto e sei feriti, vedono il movimento operaio mobilitato in massa con in
prima fila i giovani operai delle fabbriche sestesi.
Il colpo di stato
fascista, attuato dal Gen. Pinochet in Cile nel settembre del 1973 e il massacro
di operai e militanti politici dei partiti di sinistra, oltre che del presidente
socialista Salvador Allende, la sconfitta americana in Vietnam ad opera di un
piccolo popolo che lottava in armi per la propria libertà, le stragi fasciste
del 1974 (Brescia, p.za della Loggia, 8 morti; treno Italicus, Bologna, 12
morti), il colpo di stato dei militari fascisti in Argentina (30.000
desaparecidos), sviluppano nelle fabbriche e nei giovani operai un forte
dibattito sulla necessità di resistere anche con le armi alla repressione. Non è
un caso se, nei cortei sindacali del 1976-77, una delle parole d’ordine più
gridate dai giovani operai della Breda e della Magneti Marelli sarà: “Basta con
i parolai, armi, soldi, potere agli operai”.
In quegli anni si
verificarono altri due fatti che ebbero un grande peso nella presa di coscienza
di una parte di questi giovani operai.
Il
primo fu lo scoppio di un reattore del reparto B dell’Icmesa di
Seveso (fabbrica della multinazionale Roche) il 10 luglio 1976, con la
fuoriuscita di diossina in una zona densamente popolata, che provocò danni
tuttora incalcolabili alle persone e all’ambiente. Lo scoppio produsse nubi
tossiche che investirono uomini, abitazioni, colture, animali, corsi d’acqua e
fu subito denunciato non come una fatalità, ma come un “crimine di pace” da
autorevoli scienziati, fra cui Giulio Maccaccaro , fondatore della rivista
“Sapere” e di Medicina Democratica.
La diossina, che era stata usata
massicciamente dai soldati americani nel Vietnam per distruggere giungla e
foreste nel tentativo di “stanare” i combattenti vietcong, aveva già provocato,
oltre alle migliaia di morti, altrettante migliaia di aborti e la nascita di
bambini deformi. Fenomeni che puntualmente si verificarono negli anni successivi
in Italia, nella zona di Seveso e dintorni.
Il secondo fu la morte di Walter Alasia.
Alle prime ore dell’alba del 15 dicembre 1976 alcuni agenti dell’antiterrorismo
si presentano a casa di Walter Alasia, studente ventenne di famiglia operaia e
militante delle Brigate Rosse. Per sottrarsi all’arresto Walter spara. Nel
conflitto a fuoco, muore un maresciallo dell’antiterrorismo e viene colpito a
morte anche il vicequestore di Sesto San Giovanni. Durante la fuga Walter Alasia
viene colpito da una raffica di mitra alle gambe e da altri colpi a breve
distanza. In seguito i giornali scriveranno che l’autopsia ha stabilito che ad
ucciderlo, quando era già a terra ferito, è stato un solo colpo, e - anche se
testimoni oculari dichiareranno che uno dei due agenti è stato colpito da una
raffica di mitraglietta sparata da altri poliziotti - la versione ufficiale
rimarrà quella di comodo, che imputa ad Alasia la morte dei due
poliziotti.
L’episodio provocò molto scalpore e le reazioni, nelle
fabbriche di Sesto furono contraddittorie.
Molti giovani operai delle
fabbriche sestesi parteciparono ai funerali di Alasia, “blindati” dalle forze
dell’ordine. Altri, vedendo il grande spiegamento di carabinieri e polizia che
fotografavano e filmavano i presenti, decisero di tenersi a distanza, seguendo
il funerale da lontano.
Per rispondere all’uccisione dei poliziotti,
CGIL-CISL-UIL indissero uno sciopero generale “contro il terrorismo, per la
difesa dello stato democratico nato dalla Resistenza”.
A questo sciopero, io ed altri due operai del reparto
Forgia, decidemmo di non partecipare. Per noi si trattava di uno
sciopero anti-operaio e motivammo la nostra posizione con un comunicato. Al
momento dello sciopero, tutti i lavoratori della Breda Fucine uscirono dalla
fabbrica per manifestare in corteo per le vie della città contro il terrorismo.
Pochi minuti prima dell’inizio dell’agitazione, noi tre ci recammo dal capo
reparto per informarlo che non aderivamo allo sciopero. Il capo, preso dal
panico, ci disse che questo sciopero dovevamo farlo per forza, perché l’azienda
non aveva previsto che qualcuno non partecipasse.
Subito dopo affiggemmo
sulla macchinetta del caffè, di fianco al comunicato sindacale che indiceva lo
sciopero, il nostro cartello firmato “alcuni operai” dal titolo:
“NON UNA
LACRIMA, NON UN MINUTO DI SCIOPERO PER I SERVI DELLO STATO”
Nel
comunicato sostenevamo che:
1) noi non facciamo scioperi per difendere lo stato
dei padroni e le sue istituzioni (polizia), perché in una società divisa in
classi, le istituzioni sono a difesa del capitale e quindi contro gli
operai;
2) ognuno piange i suoi morti, ed i poliziotti non sono morti
nostri.
Al rientro dalla manifestazione “contro il terrorismo” il C.d.F.
della Breda e la cellula del PCI, alla testa di un migliaio di lavoratori,
entrarono in corteo fino al reparto Forgia coprendoci di sputi, insulti e
minacce, chiamandoci brigatisti. In previsione di una reazione simile, avevamo
preparato delle sbarre di ferro per difenderci in caso di aggressione. Solo
questo impedì lo scontro fisico. Comunque, sebbene fossimo “preparati”, la
reazione dei lavoratori e del C.d.F. ci scosse.
Dopo questo episodio per
mesi ne abbiamo subite di tutti i colori. La direzione della fabbrica ci faceva
sorvegliare a vista. Appena ci spostavamo dal posto di lavoro, anche solo per
andare al cesso, in mensa o negli spogliatoi, ci trovavamo alle spalle una
guardia. Il PCI ed il sindacato avevano completato l’opera facendoci terra
bruciata intorno. Nessun operaio ci rivolgeva la parola se non per motivi di
lavoro. Noi tre, facendo turni diversi e non potendo neppure mangiare insieme,
per mesi siamo stati completamente isolati.
Io ero turnista (1° e 2°
turno, dalle 6.00 alle 14.00 e dalle 14.00 alle 22.00), mentre gli altri due
facevano il centrale (dalle 8.00 alle 17.00) e quando ci sedevamo in mensa ad un
tavolo dove già c’erano altri operai, questi senza dire una parola si alzavano e
cambiavano tavolo. INSOMMA, E’ STATA PROPRIO DURA!
In quei mesi uno dei
due compagni cominciò a dare segni di sofferenza psicologica, mentre l’altro si
metteva spesso in malattia per cercare di resistere a quella situazione ormai
insostenibile. Anch’io non ero proprio a posto, sono stato più volte sul punto
di “scoppiare”, ma tenevo duro anche se a farne le spese erano soprattutto i
miei amici e la mia famiglia, sui quali scaricavo le mie frustrazioni. Per tutto
quel brutto periodo, non mi sono mai messo in malattia. Andavo a lavorare anche
con la febbre e l’influenza.
Col passare dei mesi, la situazione cambiò.
Ero diventato un “esperto” delle buste paga, e mi ero accorto che spesso queste
erano piene di errori, tutti ovviamente a danno dei lavoratori. Così, a poco a
poco, i lavoratori che avevano dubbi sulla propria busta paga, non trovando
soddisfazione dai propri delegati di reparto, cominciarono a rivolgersi a me di
nascosto (spesso aspettavano che andassi in bagno) per chiedermi di
controllargliela.
Alla fine del 1977, nonostante la persistente campagna
contro di noi della direzione Breda, del PCI e del sindacato (anche la polizia
cominciava a farsi sentire con le perquisizioni), ero riuscito a conquistarmi la
stima e la fiducia dei compagni di lavoro. Nel frattempo altri giovani operai
erano entrati a far parte del nostro gruppo, ancora senza nome, allargando il
nostro giro e dandoci nuovi stimoli per la lotta.
Alla Breda Fucine,
oltre al PCI ed al Sindacato, erano presenti in modo organizzato tutti i partiti
istituzionali (a parte l’MSI, presente con singoli individui) e quasi tutti i
gruppi extra parlamentari del panorama italiano. La fabbrica era uno spaccato
della società, con i relativi strati di classe e i vari interessi
contrapposti.
Anche se bollati come terroristi perché critici verso il
PCI ed il sindacato, la nostra presenza sempre in prima fila nella lotte
sindacali e nei cortei interni ci procurava via via sempre più simpatie, non
solo fra i giovani ma anche tra gli operai più anziani.
La squadra dei “magli
a stampare” - in cui lavoravo - fu la prima a scioperare contro la nocività,
fuori dal controllo sindacale. Fu in questo periodo che il gruppo di operai che
si stava formando inizia a presentarsi sulla scena della fabbrica – sempre più
spesso – con volantini e comunicati su fatti di interesse generale.
La nostra
azione e le nostre prese di posizione divennero sempre più spesso motivo di
dibattito e di scontro anche con i rappresentanti della “nuova sinistra” e delle
“organizzazioni combattenti”.
Verso la fine del 1978 cominciammo a
prendere sempre più spesso posizione nelle lotte, iniziando a firmare i nostri
documenti con la sigla “Gruppo Operaio Breda
Fucine”. Questo aumentò i contrasti con la direzione aziendale (le
guardie non ci davano tregua), con il PCI e il sindacato; questi ultimi – quando
non lo avevano già fatto le guardie aziendali - strappavano i comunicati che
attaccavamo nei vari reparti, cercando di renderci impossibile l’attività
politica.
Il 22 luglio 1981 venimmo infine sbattuti fuori dal sindacato
per “indegnità morale”, per aver criticato e denunciato agli operai il ruolo di
delatori svolto da alcuni delegati del Consiglio di Fabbrica. Fin dall’inizio la
nostra visione della lotta sindacale e politica non fu semplicemente
“aziendalista”.
Cercammo di stabilire contatti con gli operai e i lavoratori
di altre fabbriche di Sesto San Giovanni che, come noi, si battevano contro la
“politica dei sacrifici”, con l’obiettivo di costruire un coordinamento operaio.
All’inizio questo coordinamento delle realtà di fabbrica era molto eterogeneo e
in continua variazione. In seguito si consolidò con la presenza di alcuni gruppi
operai che stabilmente operavano insieme a noi , mentre altri gruppi di fabbrica
aderivano e partecipavano di volta in volta alle varie lotte.
Il
Coordinamento Operaio di Sesto S.Giovanni fu una forma di organizzazione che si
rivelò importante sia per denunciare, e in alcuni casi respingere, attacchi
repressivi, sia per coordinare l’iniziativa in occasione di scioperi e
manifestazioni.
Raccontare la storia del “Coordinamento Operaio di Sesto San
Giovanni” significa raccontare una parte della storia della classe
operaia italiana, successi ed errori compresi.
I materiali qui raccolti
rappresentano una selezione di quanto prodotto dal Consiglio di Fabbrica della Breda Fucine, a
partire dal documento pubblicato nel luglio 1971 sul Quaderno n°1 de “Il
Lavoratore Metallurgico”in cui si evidenzia la linea “conflittuale” del
sindacato prima della svolta dell’EUR, al materiale del Gruppo Operaio della Breda e dal Coordinamento Operaio di Sesto San Giovanni
nel periodo 1976-1983.
Molto materiale dell’epoca è andato
distrutto o disperso. Alcuni volantini fatti “a caldo” nei reparti sono stati
strappati dalle guardie aziendali, dai “censori” del PCI e del sindacato, altri
sequestrati durante le perquisizioni dell’antiterrorismo e della
DIGOS.
Quello che maggiormente colpisce nel rileggere questi documenti è la
grande attualità degli argomenti trattati, dalla necessità della lotta
anticapitalista, alla lotta contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, alla
necessità dell’organizzazione politica.
Sono passati molti anni dalla
comparsa di questi scritti, alcuni giudizi ed analisi possono essere oggi
discutibili ma, come il lettore potrà notare, le condizioni di vita e di lavoro
della classe operaia sono andate peggiorando sempre più, rendendo la lotta di
classe più attuale che mai.
Questo scritto vuole quindi essere una
testimonianza di chi ha vissuto quegli anni da una parte della barricata -
quella degli operai che non piegavano la testa - e soprattutto essere uno
strumento per chi quegli anni non li ha vissuti ma vuole capire e trarre
indicazioni su come continuare la lotta.
Per questo la parte documentale
è centrale in questo scritto.
La struttura di questo libro si articola quindi
in due parti. La prima parte di ogni capitolo consiste in un discorso generale
che introduce il clima ed il dibattito del momento per dare al lettore la
possibilità di capire il clima di quegli anni; la seconda parte è composta di documenti e volantini che sono
l’elemento centrale del libro perché frutto dell’elaborazione, nella
lotta di tutti i giorni, delle esperienze e dei bilanci concreti di gruppi di
operai e lavoratori organizzati in modo indipendente.
Michele
Michelino
Ottobre 2003
Sciopero
generale dei metalmeccanici a
Milano