VAURO -
INVIATO IN AFGHANISTAN
Bambini profughi nella terra di nessuno
Oltre la linea del fronte tra taleban e moujaheddin,
viaggio nei campi dei rifugiati dimenticati da tutti, nella valle del Panshir.
La guerra è vicina, il mondo lontanissimo.
Senza aiuti e senza cibo, tra tende e relitti di carri armati, a venticinque gradi sotto
lo zero
Lasciandosi alle spalle le montagne innevate che segnano e attraversano
la terra di nessuno, la linea del fronte tra i taleban e i moujaheddin, si entra nel
territorio dell'Afghanistan controllato dalle truppe di Massoud.
Attraversando il passo di Kapisa ai bordi delle strade di melma appaiono i primi villaggi
di case basse, misere, fatte con mattoni di fango essiccato. Di molte non restano in piedi
che grotteschi pinnacoli arrotondati dalla neve che si scioglie. I bombardamenti dei Mig
dei taleban si susseguono, due o tre alla settimana. In questo periodo il gelo invernale
limita i movimenti di truppe, e la guerra di terra si riduce a scambi sporadici di colpi
di mortaio, cannone, e razzi katiusha tra le due parti del fronte, ma i missili che
partono dai mig non risparmiano le case. Sono bombardamenti rabbiosi, alla cieca, che
distruggono i villaggi più vicini alla linea del fronte costringendo gli abitanti alla
fuga. Sono probabilmente quelli che si vedono, attraversando Kapisa avvolti in coperte,
riempire i cassoni di vecchi camion russi che arrancano nella melma, o ammucchiati a
decine su incredibili calessi tirati da asini sfiancati incrociare i gruppi di moujaheddin
armati di kalashnikov che si dirigono, a gruppi silenziosi, nella direzione opposta, verso
il fronte. Vecchi containers a file lungo la strada sono stati trasformati in botteghe con
tettoie di fango e paglia rette da pali di legno. Davanti, a mo' di tettoia, espongono
stracci, pelli malconciate e puzzolenti, pezzi di carne di montone anneriti.
Vecchi accovacciati su pezzi di muro, gruppi di bambini con facce da adulto, molti armati
di archibugi ad avancarica che ancora gli artigiani fabbricano per la caccia. Qua e là la
fugace apparizione di un burka, il cappuccio di tela che nasconde interamente le donne e
poi le stampelle di legno, tante: sostengono corpi mutilati dalle mine. Lasciata Kapisa ci
si addentra nella stretta gola rocciosa dove scorre il fiume Anjumar. E' la porta di
ingresso alla valle del Panshir. Una porta angusta, tra due alte pareti di roccia
frastagliata che scendono a picco verso il letto tortuoso del fiume che ha reso
imprendibile il Panshir ai sovietici e lo rende imprendibile ai taleban.
La pista pietrosa è chiazzata di ghiaccio, neve e delle carcasse schiantate di vecchi
carrarmati russi, immobili come giganteschi fossili preistorici. In una piccola spianata
di fango e neve, schiacciata tra la montagna e il greto del fiume, pezzi di tela grigia
sono tesi con corde tra il terreno e i cannoni che spuntano dai rottami di carrarmato,
altri sono attaccati ai cingoli arruginiti, barriere di fango secco ne chiudono - per quel
che possono - le aperture lasciando lo spazio di una porta. E' il primo dei tanti campi di
rifugiati disseminati nel nord dell'Afghanistan. "Solo nel Panshir ci sono più di
220.000 rifugiati - dice Nazary Enahitullah, ministro per i rifugiati del governo di
Massoud - Facciamo il possibile per aiutarli, ma molti campi sono irraggiungibili, non ci
sono vie, le montagne sono piene di neve, la strada da Kabul al Panshir è minata, non
abbiamo cibo. La siccità dell'estate scorsa ha fatto salire il prezzo della farina a 3
dollari e mezzo per 7 chili. Sono costretti a nutrirsi di erba che fanno bollire
nell'acqua della neve sciolta. Non arriva nessun aiuto dalle Nazioni unite, che nemmeno li
riconosce come rifugiati, perché sono afghani in territorio afghano. Gli aiuti finiscono
tutti in Pakistan per i campi di Peshawar e sono gestiti dai pakistani mentre nella zona
di Herat in sole tre notti più di 500 persone, quasi tutti vecchi e bambini, sono morte
assiderate a 25 gradi sotto zero".
Il gelo ha seccato e reso livida la pelle del viso dei bambini del campo di Anabah che ci
circondano a decine, curiosi, non appena mettiamo piede nel labirinto di fango e corde e
immondizia ghiacciata che si snoda tra le centinaia di teli tesi che sono l'unica
protezione dal freddo delle più di 4.800 persone che vivono qui. Un muro di bambini
vestiti di stracci colorati che contrastano con l'uniformità del marrone sporco della
melma e delle tende rotta a tratti da cumuli di neve sudicia.
Il muro di bambini si sgretola e si scompone a tratti quando un anziano avvolto di coperte
strappate li fa allontanare per lasciarci libero il passo, ma poi si ricompatta subito,
qualcuno meno timido azzarda un "How are you?" verso di noi e ottenuta la
risposta "How are you" si moltiplica in cento bocche diverse come un'eco. La
curiosità si è trasformata subito in un gioco e noi in un giocattolo mai visto, ma poi
sono gli anziani del campo, molti sono qui già da 18 mesi, a guidarci. Alcuni di loro
vengono dal nord di Kabul dove avevano frutteti, erano di famiglie ricche e nei loro gesti
è ancora impressa una ostinata dignità, nessuno chiede elemosina.
Sono di etnie diverse: azara, pastun, tagiki. Ma, mentre la guerra sta assumendo sempre
più i connotati di una pulizia etnica condotta dai taleban (che sono pastun, mentre i
moujaheddin sono per lo più tagiki), qui la miseria ha annullato ogni possibile conflitto
tra gruppi e ha reso obbligatoria la solidarietà. Tra le tende montate una a ridosso
dell'altra si apre ogni tanto uno spazio vuoto, un telo sfondato, spalmato sul fango, sono
le tende schiacciate dal peso della neve ridotte ad uno straccio inutilizzabile. Intorno a
quel vuoto in piedi, in silenzio, fissandolo come fosse un feretro, si raccolgono gruppi
di sfollati. "Le famiglie che vivevano lì - ci spiega uno di loro - ora devono
vivere in altre tende con altre famiglie, ci sono tende nelle quali ormai sono costrette
tre intere famiglie di 7 o 8 persone l'una, in sei-sette metri quadrati".
Le donne non ci accompagnano, le scorgiamo in penombra sotto i teli delle tende, le
intravediamo tra i muretti di fango secco che ne coprono le aperture per proteggere
l'interno dal vento ghiacciato che scende dalle montagne. Attorno a loro qualche tegame di
latta annerito, in terra vecchi tappeti e mucchi di stracci, altri muretti di fango secco
ad angolo vicino alle tende formano rudimentali focolari, ma la legna scarseggia e si
bruciano cespuglietti secchi, unico dono di questa terra gelata e brulla. Gli uomini più
validi non ci sono. Fanno chilometri a piedi ogni giorno per andare nei villaggi a cercare
cibo in cambio di lavoro, ma il mercato della miseria è avaro e i segni della
denutrizione sono evidenti nei corpi minuti dei bambini e nelle facce scavate dei vecchi e
delle donne.
Il vento sta alzando nuvole di neve sulle creste delle montagne che si accendono di un
rosso vivo nella luce del tramonto. Uno spettacolo bellissimo. Ma con la notte il freddo,
fino a 25 gradi sotto zero, si porterà probabilmente via altre vite. Mentre ci
allontaniamo alcuni bambini ci rincorrono: "How are you?" gridano.
16 Febbraio 2001 - Il Manifesto